Susumaniello: Pietro Giorgiani e la perla inattesa che rianimò un vitigno
Storie che meritano di essere ascoltate


Esistono storie che non si possono leggere sui manuali di enologia. Storie che vivono nella memoria di chi le ha vissute, che si tramandano nelle cantine tra un calice e l’altro, che rischiano di perdersi se qualcuno non si ferma ad ascoltare. Sono storie di intuizioni, ostinazione, visioni controcorrente. Storie che parlano di vino ma raccontano molto di più: parlano di identità, di coraggio, di patrimonio culturale salvato dall’oblio.
Il 23 ottobre 2025, una delegazione dell’Associazione Wine Food Voyage ha scelto di fermarsi ad ascoltare. Destinazione: Cantine Santa Barbara a San Pietro Vernotico, nel cuore della Puglia vitivinicola. Obiettivo: incontrare Pietro Giorgiani,enologo della storica “Cantine Santa Barbara” di San Pietro Vernotico in Provincia di Brindisi, per raccogliere dalla sua viva voce una vicenda straordinaria che meritava di essere preservata, narrata, condivisa. La storia di come un vitigno destinato alla scomparsa sia diventato oggi una delle più autentiche espressioni identitarie della viticoltura pugliese. La storia del Susumaniello.
Perché alcune narrazioni non possono aspettare. E questa è una di quelle!
Il Susumaniello: un nome che racconta
Il nome stesso del vitigno è un piccolo enigma linguistico che racchiude la sua natura: “Susumaniello” deriverebbe dal dialetto salentino, un riferimento alla straordinaria capacità produttiva della pianta quando carica di grappoli (“somarello” o “asino da soma“). Questo exploit produttivo si presenta nei primi anni di vita della pianta, poi, dopo circa dodici anni, la produttività cala decisamente. Paradossalmente, proprio questa caratteristica ne decretò quasi la scomparsa.


Per comprendere la storia del Susumaniello bisogna fare un passo indietro, tornare all’epoca post-fillosserica, quando la viticoltura pugliese dovette reinventarsi dopo la devastazione causata dall’insetto che decimò i vigneti europei. In quel periodo storico nacque e prosperò il mercato dei mosti e dei filtrati, un commercio fiorente che vedeva la Puglia tra le grandi protagoniste nel mercato europeo. Fu quello il periodo in cui in molti centri pugliesi sorsero stabilimenti vinicoli connessi alle linee ferroviarie per agevolare il trasporto dal sud verso il nord dei mosti e del vino.

Il Susumaniello trovò allora la sua ragion d’essere in una tecnica enologica particolare: la vinificazione con i filtrati, una doppia fermentazione che ricorda il celebre “governo all’uso toscano”. Una tecnica attribuita al Barone Bettino Ricasoli che permetteva, all’epoca, di ottenere un vino che acquisendo corpo e struttura veniva reso più pronto, fresco e facilmente bevibile. Questo e altri metodi prevedevano l’aggiunta del mosto e una rifermentazione del vino. Ben si comprende agli inizi del Novecento la centralità di questi mosti, parzialmente fermentati e poi stabilizzati. Per rallentare la fermentazione dei mosti venivano continuamente filtrati e pertanto denominati filtrati dolci: un prodotto tecnico ma prezioso, destinato ad arricchire o correggere i vini di altre regioni. In questo particolare e all’epoca redditizio mercato, il “filtrato dolce di Brindisi” divenne un prodotto ricercato, e il Susumaniello, con la sua ricchezza zuccherina, il suo colore e la sua generosità produttiva, era perfetto per questo scopo.
Il declino inevitabile
Ma quando il mercato dei filtrati iniziò a declinare, il Susumaniello perse improvvisamente la sua funzione economica. E qui emerse il suo tallone d’Achille: la resa. Nonostante il nome che evocava abbondanza, nella realtà moderna delle coltivazioni razionalizzate, il Susumaniello mostrava produzioni incostanti e spesso modeste. Dopo circa dodici anni dalla messa a dimora, quando i ceppi invecchiavano, le rese del susumaniello subivano un rapido declino e i viticoltori preferivano non ripiantarlo, sostituendolo con vitigni più produttivi e commercialmente sicuri come il Negroamaro, la Malvasia o anche il Primitivo.

Nel giro di pochi decenni, il Susumaniello divenne un fantasma dei vigneti salentini: qualche vecchio alberello dimenticato qua e là, relegato ai margini dei campi, testimone silenzioso di un’epoca che non c’era più.
L’intuizione di Pietro Giorgiani
Ma Pietro Giorgiani aveva una visione diversa. Mentre tutti guardavano avanti verso vitigni più redditizi, lui guardò indietro, verso ciò che stava per andare perduto. Intuì che in quel vitigno dimenticato si nascondeva un potenziale inespresso, una qualità che nessuno aveva più cercato perché tutti erano troppo occupati a inseguire la quantità.


Per concretizzare la sua intuizione, Giorgiani si affidò a un colono mezzadro di nome Mimmi, un uomo che aveva trascorso la vita a occuparsi dei latifondi degli Orsini del Balzo e che conosceva ogni angolo della campagna brindisina. Gli affidò una missione quasi impossibile: trovare un campo dove ci fosse ancora una presenza accettabile di piante di Susumaniello.
Mimmi non promise nulla. Accettò l’incarico e scomparve nella campagna con la pazienza di chi sa che alcune ricerche richiedono tempo.
La scoperta in Contrada Jaddico
Passarono due anni. Due anni di attesa, di speranza sospesa. Poi, un giorno, Mimmi tornò con una notizia: aveva trovato qualcosa.

Condusse Giorgiani in Contrada Jaddico, nelle campagne di Brindisi, in un podere di pertinenza del Santuario di “Santa Maria della Chiesa” affidato ai monaci “Carmelitani Scalzi“. Il Santuario, come noto, ha inglobato ciò che rimaneva dell’antica chiesetta di campagna dedicata alla Madonna del Gallico, già appartenuta all’Ordine del Santo Sepolcro, una chiesa dove i crociati o i pellegrini che si imbarcavano per la Terra Santa trovavano ristoro fisico e spirituale. Lì, in questo luogo intriso di storia, ai margini della vecchia via Traiana, quasi nascosto, c’era un piccolo appezzamento con due o tre filari di vecchi alberelli di Susumaniello. Piante antiche, sopravvissute per miracolo, che nessuno aveva avuto il coraggio di estirpare ma che nessuno curava più davvero.


Era il 1997. Per Giorgiani fu come trovare un tesoro. Prese immediatamente in affitto la conduzione di quella terra e si mise al lavoro. Con pazienza certosina, iniziò a propagare il vitigno: prelevò le barbatelle, utilizzò la tecnica dell’innesto a scudetto, e lentamente ripiantò l’intero piccolo appezzamento a Susumaniello.
La prima vendemmia fu modesta ma preziosa: circa dieci quintali di mosto. Giorgiani lo vinificò con cura, sperimentando, cercando di capire cosa quel vitigno potesse davvero esprimere quando trattato con rispetto e competenza.
Il servizio RAI e la rivelazione
Fu proprio in quei giorni che il destino bussò alla porta sotto forma di Michele Peragine, giornalista RAI che stava preparando un servizio sul vino del Salento. La troupe arrivò alle Cantine Santa Barbara e Pietro fece fare loro il classico tour: le vasche, i fermentini, le botti piccole e grandi. Un repertorio già visto, già raccontato mille volte.
Il giornalista stava per concludere quando, quasi per cortesia, pose l’ultima domanda di rito: “Avete altre novità?”


Giorgiani esitò. Da un lato la ritrosia professionale di mantenere riservato un progetto ancora in fase sperimentale, dall’altro l’entusiasmo irrefrenabile di chi ha scoperto qualcosa di speciale e fatica a non condividerlo. Alla fine, l’entusiasmo vinse sulla prudenza.
“Venga, le faccio assaggiare un vino nuovo,” disse, conducendo Peragine in cantina.
Il giornalista assaggiò. E rimase folgorato. Chiese di cosa si trattasse, da dove venisse quel vino così particolare, così diverso.
“È Susumaniello,” rispose Giorgiani. “Un vitigno che stava scomparendo. Voglio introdurlo in un blend, ma devo ancora decidere come.”
Il precedente del Barbaglio
Giorgiani non era nuovo a questo tipo di scommesse visionarie. Anni prima era stato il primo a introdurre il Primitivo in un blend, in un’epoca in cui questo vitigno veniva quasi evitato nella vinificazione in bottiglia perché considerato capriccioso e poco docile. Lui lo aveva domato, mescolandolo con il Negroamaro, e ne era nato il Barbaglio.

E qui si apre una piccola parentesi gustosa sul naming. Cercando un nome che richiamasse la Cantina Santa Barbara, Pietro sfogliò metodicamente il vocabolario alla lettera B. Si fermò su una parola che lo colpì: “barbaglio“, che significa sprazzi di luce. Lo adottò con entusiasmo immediato, riconoscendo in quel termine uno degli sprazzi geniali che hanno costellato la sua carriera enologica.
Forte di quella esperienza, Giorgiani era pronto a ripetere l’impresa con il Susumaniello. Ma questa volta il destino aveva in serbo qualcosa di ancora più speciale.
La Perla di Bordeaux: quando un’ostrica svelò il Sumanero
Lo sanno bene gli addetti ai lavori: durante i grandi eventi dedicati al vino, i momenti più autentici di confronto tra esperti non avvengono nelle sale degustazione o dietro i banchi d’assaggio. Accadono a cena, quando i calici si riempiono di storie oltre che di vino, quando le formalità del giorno lasciano spazio alla confidenza della sera.
E lì a Bordeaux, in occasione di un concorso internazionale, attorno a un tavolo cosparso di gusci d’ostrica madreperlati, alcuni enologi italiani stavano condividendo quel rituale antico che unisce mare e terra, sale e vino. Tra loro, Pietro Giorgiani, Lanfranco Paronetto e altre figure di spicco dell’enologia italiana, lasciavano che la conversazione scivolasse dalla tecnica alla passione, dal mestiere ai sogni.


Fu tra un guscio e l’altro che Giorgiani si lasciò andare. Parlò del suo progetto segreto, di quel blend che lo ossessionava da mesi: tre vitigni salentini che nessuno aveva mai osato unire in quel modo. C’era il Negroamaro, il principe indiscusso del Salento, e la Malvasia Nera, con la sua eleganza misteriosa. Ma poi c’era lui: il Susumaniello.
“Un’uva dimenticata,” spiegò Giorgiani, gli occhi che brillavano come le ostriche sotto la luce delle candele. “Relegata ai margini, quasi estinta. Ma io ne sento il potenziale. È come se dormisse, aspettando solo qualcuno che la risvegli.“
Paronetto lo ascoltava, aprendo un’altra ostrica con gesto esperto. Sapeva riconoscere quando un collega parlava con il cuore oltre che con la competenza. E quella sera, Giorgiani stava letteralmente cercando di rianimare un vitigno dal limbo dell’oblio viticolo.


Fu allora che Paronetto, con quella spontaneità che solo il vino buono e le ostriche fresche sanno ispirare, esclamò ridendo:
“E quando ce lo farai assaggiare questo… Sumanero?”
Il tempo si fermò.
Giorgiani sollevò lo sguardo. Su-Ma-Ne-Ro. Susumaniello, Malvasia Nera, Negroamaro. L’anagramma perfetto era lì, appena nato dalla bocca di Paronetto come una perla improvvisa da un guscio di Bordeaux. Tre vitigni, quattro sillabe, un’identità.
Non servivano altre parole. Quel nome conteneva già tutto: la tradizione salentina, l’innovazione del blend, il coraggio di recuperare ciò che era stato dimenticato. Era elegante senza essere pretenzioso, misterioso senza essere oscuro. Era semplicemente… giusto.
Quella sera, tra le ostriche di Bordeaux e il vino francese, nacque un’anima pugliese. Il Sumanero non era più solo un progetto: era diventato una promessa, un manifesto, una rinascita. Un blend realizzato col 60% di susumaniello, il 20% di malvasia nera e il 20% di negroamaro, dove per la prima volta veniva indicato il nome del vitigno in etichetta e per la prima volta il susumaniello all’interno di quel blend donava un apporto maggioritario e non da insignificante comprimario da non meritar menzione.
L’eredità del Sumanero e la rinascita del vitigno
Quando, nel 2001 (data di primo imbottigliamento ma con annata di vinificazione nel 2000), finalmente il vino vide la luce nelle Cantine Santa Barbara, portò con sé un primato storico: fu il primo in assoluto a riportare il nome “Susumaniello” in etichetta. Come quella perla inattesa in un’ostrica, aveva il potere di aprire un mondo nuovo, di dare voce a ciò che era stato dimenticato, di trasformare tre vitigni in una storia che ancora oggi continua a raccontarsi.
Perché alcune cose, come le perle, non si cercano. Si trovano. O meglio: si riconoscono, quando il momento è quello giusto.
Oggi, grazie all’intuizione e alla tenacia di Pietro Giorgiani, il Susumaniello è tornato a essere un vitigno identitario della Puglia. Quelle vecchie viti di Contrada Jaddico hanno generato una nuova generazione di vigneti, e quel vitigno che stava per scomparire è diventato simbolo di una viticoltura consapevole, che sa guardare al futuro senza dimenticare le proprie radici.


Cantine Santa Barbara consolidò la sua pionieristica posizione avviando nel 2017 la produzione del Susumaniello in purezza (con annata di vinificazione nel 2016) con il “Capirussu Susumaniello”, suggellando la soddisfazione e l’orgoglio di essere stata la prima azienda a credere nella recente rivalutazione del vitigno. Oggi Pietro, affiancato con orgoglio dalle figlie Maria Rosaria e Marcella, continua a raccontare questa storia di passione e visione, tramandando non solo la tecnica enologica ma anche la consapevolezza che dietro ogni bottiglia si cela un patrimonio culturale da preservare e valorizzare.


Ma il seme piantato da Giorgiani aveva già iniziato a germogliare altrove. La storia ci racconta che nel 1998 Gregory Perrucci, di Accademia dei Racemi, dopo aver acquistato una tenuta nel brindisino che comprendeva anche una vigna di susumaniello ad alberello di circa 70 anni, decise di ricavarne le marze per poi condurre un nuovo vigneto da cui nel 2021 nacque il “SUM”, susumaniello in purezza. Nei medesimi anni l’interesse verso questo vitigno fu manifestato anche da Angelo Maci di Cantine Due Palme, e da Tenute Rubino, che è diventata la cantina che più ha puntato sulla valorizzazione del varietale e sulla sua identificazione con il territorio di Brindisi.
Il cerchio si chiude: quando le storie tornano a casa
E quando i soci di Wine Food Voyage hanno ascoltato questa storia dalla viva voce del suo protagonista, quel pomeriggio del 23 ottobre 2025, hanno compreso che stavano assistendo non solo al racconto di un vino, ma alla testimonianza di come la passione, la visione e un pizzico di ostinazione possano salvare un intero patrimonio culturale dall’oblio.
Hanno compreso anche qualcosa di più profondo: l’importanza vitale della narrazione. Perché le storie non vivono nei libri o negli archivi. Vivono nelle voci di chi le ha vissute, negli occhi che si illuminano quando le raccontano, nelle mani che gesticolano disegnando nell’aria vigne immaginarie. E se qualcuno non si ferma ad ascoltare, quelle storie rischiano di perdersi per sempre, insieme ai tesori di conoscenza e identità che custodiscono.


Il Susumaniello è stato salvato dall’estinzione grazie all’intuizione di un uomo che ha saputo guardare dove gli altri non guardavano più. Ma è attraverso la narrazione che questa salvezza diventa eredità collettiva, memoria condivisa, ispirazione per le generazioni future.
Perché raccontare non è un vezzo. È un atto di resistenza culturale, un modo per preservare ciò che siamo stati e ciò che potremmo ancora essere. È l’unico modo per far sì che le perle rare, come il Susumaniello, non tornino mai più nell’oblio da cui sono emerse.
Articolo a cura di Luigi Sances, presidente di Wine Food Voyage APS e fondatore dell’omonimo blog specializzato in narrazioni enogastronomiche (Ottobre 2025)

